Le donne in dolce attesa devono prestare particolare attenzione alla loro dieta abituale, e non soltanto per non metter su troppi chili ma anche per garantire al feto tutti i nutrimenti di cui ha bisogno.
Lo conferma una recente ricerca condotta presso la Sahlgrenska Academy in collaborazione con la Linköping University e pubblicata su Pediatric Diabetes.
Gli studiosi hanno analizzato campioni di sangue di 6.000 bambini di sei anni di età per individuare una eventuale predisposizione al diabete di tipo 1 (in tal caso i globuli bianchi attaccano le cellule pancreatiche che producono insulina).
Il 3% dell’intero campione è risultato essere diabetico e i ricercatori hanno, così, potuto dimostrare che il rischio di diventare diabetico risultava doppio in quei bambini la cui mamma, durante la gravidanza, aveva consumato poche verdure.
I figli di donne che avevano mangiato verdura ogni giorno, invece, risultavano avere i rischi più bassi.
Hilde Brekke, a capo della ricerca, ha chiarito che questo studio non dimostra inequivocabilmente che le verdure svolgano un’azione preventiva ma certamente rappresenta un primo passo per capire in che modo lo stile di vita e quello alimentare della futura madre incidano sullo sviluppo del feto.
30/10/09
Verdure in gravidanza per ridurre il rischio che il nascituro sia diabetico
17/10/09
Obesità: toglie fino a 12 anni di vita
Le persone gravemente obese (che superano di 40-50 chili il loro peso-forma) hanno una vita più breve di 3-12 anni rispetto ai coetanei normopeso, secondo una nuova ricerca americana.
La ricerca conferma che l'obesità vera e propria ha conseguenze gravi sulla salute e la durata della vita di un individuo - un dato che conta molto in una società come quella americana dove un terzo degli adulti è obeso. Il problema è anche economico: l'autore della nuova ricerca Eric Finkelstein e gli esperti del Centers for Disease Control and Prevention hanno recentemente calcolato che gli americani obesi sono costati al Paese 147 miliardi di dollari in spese mediche nel 2008, il doppio rispetto al 1998.
Non a caso, Finkelstein fa parte di un gruppo di economisti dell'organizzazione no-profit Rti International, che ha analizzato i dati di 366.000 americani.
I risultati sono riportati dalla rivista Obesity.
Fumare non fa che peggiorare la situazione: un uomo bianco di 18 anni che è normopeso e non fuma può aspettarsi di vivere fino a 81 anni negli Stati Uniti, ma se fuma ed è gravemente obeso, vivrà fino a 60 anni.
Come se non bastasse, un altro studio, condotto da Paul Thompson, professore di neurologia della Ucla, in California, sostiene che l'obesità causa anche una "grave degenerazione del cervello": osservando gli esami al cervello di 94 adulti di 70 anni circa, il professore ha scoperto che i soggetti obesi avevano l'8% di tessuto cerebrale in meno rispetto ai coetanei normopeso e che i loro cervelli sembravano più vecchi di 16 anni.
Le persone sovrappeso avevano il 4% di tessuto cerebrale in meno e il loro cervello sembrava più vecchio di 8 anni. Thompson ha trovato perdita di tessuto nelle aree addette al ragionamento più elaborato: problem-solving, controllo del linguaggio e degli impulsi, memoria e navigazione spaziale, apprendimento e funzioni motorie
12/10/09
Bebè a rischio se mamme incinte mangiano liquirizia
La liquirizia può far male alle donne incinte, causando nei loro figli problemi di concentrazione e di iperattività.
Lo rivelano gli scienziati delle Università di Helsinki ed Edimburgo, secondo cui i figli di donne che hanno consumato molta liquirizia durante la gravidanza hanno punteggi sui test di intelligenza minori rispetto al normale.
"Un componente dalla liquirizia, chiamato 'glycyrrhiza', potrebbe danneggiare la placenta e permettere il passaggio di ormoni dello stress da madre a figlio", ha detto Katri Raikkonen, ricercatore che ha preso parte allo studio pubblicato sull'American Journal of Epidemiology.
"Questi ormoni possono influenzare la crescita del cervello del bambino durante la gravidanza, risultando in problemi comportamentali", ha aggiunto.
Lo studio è stato condotto in Finlandia, dove la liquirizia è molto popolare ed è usata come aroma anche per bevande, gelati e altri alimenti.
"Abbiamo analizzato 321 bambini dell'età di otto anni e valutato le loro capacità spaziali, verbali e di memoria", ha spiegato Raikkonen.
"Le madri - ha continuato - che durante la gravidanza hanno mangiato molta liquirizia (per almeno 500 milligrammi di 'glycyrrhiza' a settimana) hanno dato alla luce figli con minore intelligenza. Inoltre, questi bambini hanno più probabilità di comportamenti aggressivi e distruttivi".
I ricercatori suggeriscono alle madri in attesa di evitare del tutto la liquirizia. Uno studio precedente aveva già rivelato che alti quantitativi di questo dolciume possono portare anche a nascite premature
05/10/09
I pediatri d'accordo: no al latte vaccino prima dell'anno
Introdurre troppo presto il latte vaccino nella dieta dei bambini esporrebbe la salute a seri rischi in età adulta. A ribadirlo gli esperti di nutrizione pediatrica in occasione del Congresso "Nutrizione e metabolismo nel bambino" tenutosi di recente a Verona.
In particolare, l'American Academy of Pediatrics, il Ministero della Salute e la Società italiana di Pediatria hanno sconsigliato la somministrazione di latte vaccino intero nei primi dodici mesi di vita, in accordo anche alle linee guida sull'alimentazione durante il primo anno di vita dell'Espghan (Società europea di Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione pediatrica). Il latte vaccino assunto prima dei 12 mesi di vita esporrebbe soprattutto al rischio di anemia: a 1 anno il 17% di bambini allattati con latte vaccino è anemico rispetto all'1% dei lattanti alimentati con formula integrata.
Il ferro nel latte vaccino, infatti, ha una biodisponibilità oltre 10 volte inferiore rispetto al latte materno che dovrebbe, quindi, essere somministrato almeno al compimento del primo anno e in caso di mancanza essere sostituito con una formula specificamente studiata. In aggiunta, i rischi dell'assunzione precoce sono rappresentati dall'eccessivo introito di proteine, grassi saturi e colesterolo, che predisporrebbero a problemi di obesità e aterosclerosi e dalla carenza di acidi grassi essenziali e vitamine.
Attività fisica per prevenire il rischio di infarto
Un'attività fisica sana, regolare e senza sforzi aumenta il colesterolo buono (HDL), diminuisce quello cattivo (LDL), abbassa la pressione arteriosa e i livelli di glicemia ma, soprattutto, riduce il rischio di aritmie minacciose e di morti improvvise. Lo sport praticato senza continuità e interrotto bruscamente può essere dannoso, meglio farlo con gradualità e costanza. Secondo recenti studi statunitensi, l'esercizio fisico ridurrebbe del 25% i rischi di mortalità da infarto. Infatti, la probabilità di un primo attacco cardiaco risulta raddoppiato nelle persone sedentarie di sesso maschile rispetto a coloro che praticano sport. Gli esercizi anti-infarto sono: nuoto, tennis, footing possibilmente all'aperto e, comunque, mai meno di quattro volte a settimana per 40 minuti a seduta. Sì allo sport, quindi, anche se gli esperti sconsigliano di praticarlo quando fa caldo o troppo freddo o dopo aver mangiato abbondantemente. Nel caso in cui il paziente sia stato sottoposto a intervento chirurgico c'è la ginnastica “calistenica”, che consiste in una serie di esercizi dolci da far eseguire dopo la seconda settimana dall'infarto e dopo la terza dall'operazione, in modo da evitare un secondo infarto ed un peggioramento della malattia ischemica di fondo. E' notizia di questi giorni che in dieci anni la sindrome coronaria acuta responsabile degli attacchi è scesa dal 10 al 5%. Ogni anno in Italia sono vittime di malattie cardiovascolari 242mila persone. Di queste, il 30 per cento, cioè 73mila, sono dovute all'infarto del miocardio: 187 decessi ogni 100mila abitanti. Nel Bel Paese i pazienti affetti da cardiopatia ischemica, l'anticamera della sindrome coronaria acuta, sono un milione e 500mila. Un dato finale: gli uomini nell'età compresa tra i 50 e i 70 anni sono a maggiore rischio infarto rispetto alle donne, soprattutto nei paesi nordici dove è più alto il consumo di grassi animali.